Siamo nell’ambito della piena speculazione trattando di argomenti e di fatti che non si sono ancora realizzati.
Non è certo un lavoro da storico fare previsioni.
Discutere di quanto potrà essere forte l’impatto sulla cultura umana di qualcosa che ancora non è stato codificato richiederebbe il possesso della proverbiale “palla di vetro”…

Escher, “Autoritratto con sfera riflettente”, 1935

Ponendo lo sguardo ai velocissimi e mutevoli “nostri tempi” si può però provare ad ipotizzare un “qualcosa”, osservando la continua l’evoluzione dei mezzi dei comunicazione e del comunicato, e secondo me nemmeno con così tanta approssimazione…

L’argomento del nostro discorso pone l’attenzione sull’imminente lancio del cosiddetto “metaverso”. Ho utilizzato il termine “lancio” non certo a casaccio. Ho voluto sottolineare la natura commerciale dell’evento. Non si tratta dell’invenzione della lampadina o della radio, bensì dell’evoluzione di alcune tecnologie già disponibili, quali il web e le varie “periferiche sensoriali” collegabili ad esso (Oculus, guanti, tute, televisori capaci di trasmettere odori, ecc.).

Il word wide web, nato nel 91 per mettere in contatto il CERN di Ginevra con il mondo scientifico, compie dei balzi evolutivi che si potrebbero oggi suddividere in tre macro categorie:

– web statico: visualizzi i contenuti ma non interagisci.
Una vera e propria valanga di contenuti si riversa su una sempre più imponente platea di utenti interconnessi.
Ovviamente non si tratta ancora di un fenomeno globale. Il web si irradia solo nel mondo occidentale ed ha difficoltà (ancora oggi) a svilupparsi dove persistono regimi totalitari.

Una vecchia schermata del motore di ricerca Yahoo

– web dinamico: visualizzi i contenuti, interagisci (chat, forum, ecc..) e li modifichi. L’arrivo dei social network permette a miliardi di utenti di comunicare tra di loro. Viene a crearsi una coscienza, una cultura ed un’opinione pubblica digitale tanto potente e ben radicata da influenzare sempre più le scelte economiche, politiche e sociali di gran parte della popolazione mondiale.
La sfera d’influenza geopolitica di questa innovazione tecnologica diviene globale, grazie anche allo sviluppo di nuovi sistemi per amplificare la rete, ad esempio lo Starlink di Musk, la nuova costellazione di ripetitori orbitali per l’accesso ad internet satellitare a banda larga, che promette di raggiungere anche le zone più impervie del pianeta

Pagina del profilo di Mark Zuckerberg nella primissima versione di Facebook del 2004

– internet 3.0: visualizzi i contenuti semanticamente personalizzati dall’intelligenza artificiale, interagisci “fisicamente” grazie al supporto di periferiche sempre più efficaci nel restituire sensazioni che la nostra psiche percepisce come reali a tutti gli effetti.

Si prospetta l’avvento di realtà metafisiche personali, ma soprattutto personalizzate. Più o meno comodamente, a seconda che si abbia un parere positivista o pessimista della questione, non è difficile immaginare che un bel giorno un’intelligenza artificiale sceglierà per noi cosa più ci potrebbe piacere. Io credo fermamente che sgravare il genere umano dall’attività intellettuale che elabora le proprie scelte personali, comprese le più frivole, possa, a lungo andare, rincoglionirci.

Internet 3.0 promette performance degne del miglior Udinì: tutti i nostri sensi, compresa la percezione dello spazio/tempo, verranno sistematicamente ingannati da una miriade di devices, alcune attualmente commercializzate, altre in avanzato stato di sviluppo. In futuro, la diffusione di visori in 3D, occhiali per la realtà aumentata o indumenti capaci di restituire sensazioni tattili diverrà capillare.
Immaginare il facile successo dell’avvento dei vari metaversi, virtualmente percepibili ed abitabili, è quasi scontato. Basti fare i conti in tasca, ad esempio, alle grandi major che oggi producono e commercializzano videogames.

Con la tremenda complicità della pandemia da covid 19, milioni e milioni di persone costretti tra le mura domestiche, si sono trovati a dover impiegare una mostruosa quantità di tempo libero. Una delle attività che hanno registrato un incremento esponenziale in termini quantitativi è quella videoludica.

Tralasciando completamente la questione se questi si possano definire un’espressione artistica culturalmente valida e formante (a mio parere non ancora), o puro intrattenimento (anche il cinema d’altronde era considerato puro intrattenimento prima dell’avvento del cinema d’autore…), è curioso quanto successo abbiano raccolto i cosiddetti giochi in “mondo-aperto” (openworld).

Non è un caso…L’attività videoludica, indipendentemente dal genere o dal grado di sofisticazione del gioco stesso, basa tutte le sue capacità d’intrattenimento sul far provare al giocatore l’illusoria sensazione di compiere qualcosa d’importante, di epico, facendo leva sull’atavica spinta all’esplorazione, seppur effimera, di nuovi mondi virtuali. In un periodo segnato continue clausure, milioni di videogiocatori hanno cercato questo genere di evasione, gonfiando esponenzialmente i guadagni delle grandi case di produzione statunitensi.

Contenitori percorribili ed esplorabili, dove la percezione di noi stessi si basa su impulsi inviati da macchine direttamente ai nostri sensi, in qualche misura sono realtà già esistenti e fruibili.

Lo strumento ecostorico, proprio perché prescinde dalla storiografia e dato che parliamo di eventi futuri per i quali non può esistere assolutamente nessun tipo di storiografia, può essere utilizzato per provare ad ipotizzare la forma o la sostanza di questi metaversi.

L’ecostoria, in una sintesi assolutamente elementare sia chiaro, ci racconta che l’uomo dalla capanna in legno, luogo di riparo e ristoro dalle avversità, passando per l’edificazione di cattedrali che sfidavano ogni legge fisica, è giunto fino alla progettazione e realizzazione di intere città. Quindi lasciamo da parte per un attimo la storia dell’architettura, che per sua natura seleziona argomenti in ordine cronologico e d’importanza, istituendo involontariamente una graduatoria di valori e proviamo ad immaginare l’evoluzione della storia dell’edificazione umana quando giungerà a costruire interi universi virtuali.

I futuri metaversi avranno tetti e mura per renderli più attinenti alla concretezza. Non a caso in inglese cemento si dice concrete…
I metaversi saranno in possesso di una qualche forma di architettura di base per rendere più forte l’illusione di poterli attraversare. Saranno architetture con specifiche strutture, funzioni, morfologie e semantiche diverse tra loro.

Avranno quartieri e città. Stanno infatti nascendo società (real estate) predisposte alla vendita di interi lotti immobiliari, rigorosamente virtuali. Decentraland è un luogo digitale dove si possono acquistare tali lotti e costruire gallerie da far visitare agli ammiratori della cosiddetta arte digitale, resa disponibile dalla tecnologia degli N.F.T.

Lo strumento ecostorico, proprio perché prescinde dalla storiografia e dato che parliamo di eventi futuri per i quali non può esistere assolutamente nessun tipo di storiografia, può essere utilizzato per provare ad ipotizzare la forma o la sostanza di questi metaversi.
L’ecostoria, in una sintesi assolutamente elementare sia chiaro, ci racconta che l’uomo dalla capanna in legno, luogo di riparo e ristoro dalle avversità, passando per l’edificazione di cattedrali che sfidavano ogni legge fisica, è giunto fino alla progettazione e realizzazione di intere città. Quindi lasciamo da parte per un attimo la storia dell’architettura, che per sua natura seleziona argomenti in ordine cronologico e d’importanza, istituendo involontariamente una graduatoria di valori e proviamo ad immaginare l’evoluzione della storia dell’edificazione umana quando giungerà a costruire interi universi virtuali.

I futuri metaversi avranno tetti e mura per renderli più attinenti alla concretezza. Non a caso in inglese cemento si dice concrete…
I metaversi saranno in possesso di una qualche forma di architettura di base per rendere più forte l’illusione di poterli attraversare. Saranno architetture con specifiche strutture, funzioni, morfologie e semantiche diverse tra loro.


Avranno quartieri e città. Stanno infatti nascendo società (real estate) predisposte alla vendita di interi lotti immobiliari, rigorosamente virtuali. Decentraland è un luogo digitale dove si possono acquistare tali lotti e costruire gallerie da far visitare agli ammiratori della cosiddetta arte digitale, resa disponibile dalla tecnologia degli N.F.T.

Esempio di museo virtuale

E’ infatti a partire dal 2017 che scoppia il fenomeno degli N.F.T., not fungible token. L’acronimo, tradotto letteralmente dall’inglese, indica la natura di questo fenomeno digitale: i token possono esser paragonabili alla chiavetta della macchina da caffè in dotazione a molti impiegati, al cui suo interno viene caricato del credito. Il principio è molto simile. Nella micro-economia aziendale, per quello che riguarda ad esempio solo l’acquisto del caffè espresso, la moneta corrente viene sostituita da un gettone. Nel caso specifico degli N.F.T. le criptovalute (per loro natura esenti dai canonici passaggi scanditi dalla finanza) e le blockchain (un sorta di sistema di sicurezza che registra tutte le transazioni) garantiscono il funzionamento di queste economie.

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Passiamo al concetto di non-fungible. L’esempio pratico lo abbiamo quando osserviamo un qualsiasi biglietto di un incontro di calcio: esso è corrispettivo di una prestazione, l’ingresso allo stadio, ma non è fungibile perché nominale ed identificato da una sigla ben precisa.

Per ricapitolare: comprando un N.F.T. si entra quindi in possesso di un certificato di proprietà registrato sulla blockchain, legato a una copia di un’opera digitale. L’artista spesso invia al compratore una versione in alta qualità del file, o altri extra (e in alcuni casi una copia fisica dell’opera).
L’assurdo è che quando qualcuno compra un N.F.T., non sta in realtà comprando il file digitale, gif o jpeg che sia; non sta nemmeno comprando un’opera d’arte digitale. Comprando un N.F.T. si compra un certificato di proprietà che rimanda (linka) a un file digitale, la cui copia è venduta insieme al certificato. Ribadisco, ciò che viene acquistato è il certificato di proprietà di una copia intangibile, guai a chi sperava romanticamente di aggiudicarsi almeno il file originale elaborato dal “mouse ispirato” di un giovane artista digitale.

esempio di NFT con il ritratto di una statua con gli occhiali.

Tanto per farsi un idea sul valore economico di questi certificati di proprietà su beni intangibili, l’undici marzo 2021, Beeple, al secolo Mike Winkelmann, è riuscito a vendere “Everydays: The First 5000 Days” per 69 milioni di dollari durante un’asta online organizzata da Christie’s. La vendita lo ha fatto balzare al sesto posto della classifica delle opere d’arte più costose di tutti i tempi, se non si tenesse conto che l’opera è stata acquistata in Ethereum (42.329 ETH), una delle maggiori criptovalute in circolazione.

“Everydays: The First 5000 Days” , Beeple, 2021, nft

Proprio come accade nel sistema-arte reale, nel metaverso digitale assistiamo attualmente alla nascita di artisti digitali, che espongono in musei virtuali, contribuendo allo sviluppo di un floridissimo mercato, foraggiato da wallet pieni di criptovalute in possesso degli avatar dei moderni collezionisti di N.F.T.. In termini molto meno arzigogolati un mercato artistico parallelo a tutti gli effetti.

Ma come si giustificano i numeri esorbitali di questa economia? Se già spesso risulta difficile comprendere quali siano i fattori che determinano il valore di un opera d’arte materiale (vi assicuro che sono molteplici e non sempre trasparenti) credo sia quasi impossibile coglierne il significato quando abbiamo a che fare con rappresentazioni composte da poche decine di pixel, i cui significati iconografici, sociali, culturali mi sfuggono totalmente. Insisto sull’analisi iconografica (disciplina sussidiaria della storia dell’arte che analizza le immagini dal punto di vista culturale e simbolico) delle opere digitali perché la stragrande maggioranza degli N.F.T. riproduce immagini che richiamano al mondo (ancora una volta) dei videogames, per esser più precisi dei cosiddetti retrogames, giochi di oltre 35 anni fa dalle grafiche minimali e “pixellate”.

Un esempio è quello dei CryptoPunks creati da Larva Labs nel 2017: sono 10mila personaggi pixelati generati da un algoritmo mixando una serie di proprietà come colore di pelle, capelli, occhi e molte altre. Ogni punk è diverso ma – qui sta l’elemento di scommessa – al momento di comprarne uno i collezionisti non sanno se il loro punk sarà raro o comune. Un po’ come acquistare un pacchetto di figurine sperando di scovarvi dentro quella introvabile. Al momento della vendita ufficiale, per ogni punk viene stabilito un prezzo base, dopodiché si sviluppa un fiorente mercato secondario per gli N.F.T. che per grazia divina (o algoritmica) sono risultati essere i più rari del lotto.

Collezionare arte, materiale o immateriale che sia, non è come collezionare passivamente figurine di calcio. Implica di avere una conoscenza, tanto granitica quanto estesa, delle svariate forme espressive che il genere umano ha saputo realizzare nel corso della sua storia. Implica anche di possedere un proprio gusto personale capace di orientare le proprie scelte. Il collezionista, per sua natura vorrebbe arraffare tutto, ma è costretto prima o poi a scegliere, non si affida alla sorte comprando pacchetti chiusi. Esso ci vuol sempre vedere chiaro, prima di firmare le fantozziane “tonnellate di cambiali”.

Per chi invece oggi passa la maggior parte del proprio tempo su piattaforme online, immerso nella digitalità, il collezionare si risolve nell’azione, tutta videoludica, volta all’accumulo di accessori rari per il proprio avatar. Tali accessori virtuali possono avere per l’utente molto più valore della una sua controparte materiale, di una camicia pulita da indossare a una festa di compleanno, per fare un esempio banale.

Oggi sempre più persone spendono una mole significativa del proprio tempo interagendo con oggetti digitali. In futuro, con tutta probabilità, la nostra percezione del valore e dell’importanza degli oggetti digitali cambierà, che ci piaccia o no.

Un certificato di autenticità digitale forse diverrà più importante di uno cartaceo che attesta la medesima cosa.

D’altro canto non ci vedo niente di scandaloso nella riproducibilità di queste opere. Alla popolare domanda su come può un file digitale, che può essere salvato sul proprio computer da chiunque, essere venduto per cifre milionarie, risponderei con degli esempi di arte materiale, quali magari le stampe di Albrecht Dürer o di Keith Haring che di certo non fondavano la loro popolarità sull’unicità del capolavoro ma sulla loro riproducibilità. Chi ha la fortuna di portarsi a casa una serigrafia firmata K. Haring si preoccupa relativamente poco della tiratura di tali stampe. Dopo l’acquisto di una stampa pregiata divieni il suo unico proprietario, poco importa se ne esistono altri. Ne detieni la copia N e nessuno potrà reclamarla.

Potrà essere fotografata, apparire riprodotta nei cataloghi, essere protagonista di un documentario ma non sarà mai la copia fisica numero N in tuo possesso, ma solo la sua rappresentazione. Lo stesso accade a chi acquista un N.F.T.. I collezionisti si preoccupano di essere gli unici proprietari del token che rappresenta l’opera digitale, ed è questo che conta, dato che tutto ciò che è sulla blockchain è immutabile e perennemente sottoposto al vaglio degli altri utenti.

Quindi la forma e la sostanza del mercato parallelo creatosi intorno al fenomeno degli N.F.T., come abbiamo detto, è la medesima del mercato artistico reale. Quel che risultano profondamente differenti sono le motivazioni che spingono sempre più persone ad investire in questo mercato. La stragrande maggioranza dei collezionisti di N.F.T. non hanno alcun interesse artistico; spesso risultano essere gli stessi investitori in criptovalute che cercano solamente un altro modo di arricchirsi. Figure molto più identificabili nel freddo broker finanziario piuttosto che nel raffinato collezionista di arte antica.

Ho criticato a fondo questo nuovo sistema di fare arte, ma ad un certo punto mi sono dovuto fermare, perché in fin dei conti tutte le innovazioni, tutte le avanguardie sono state sempre viste in maniera negativa, compiendo errori immani di valutazione. Si pensi alle critiche mosse agli impressionisti, tacciati di imbrattare le tele con rappresentazioni poco nitide, o quelle ai cubisti colpevoli di snaturare le figure dal mondo reale, per non parlare dell’astrattismo e del dadaismo. Quello che oggi vedono con spavento molti addetti ai lavori del mondo dell’arte, potrebbe un giorno diventare avanguardia. Chi vivrà vedrà, recitava un vecchio adagio.

Cryptopunks