Le lotte operaie e contadine vennero costantemente represse nel sangue. Qualche volta a sparare sulla folla fu il Regio Esercito, altre volte furono le lupare delle varie cosche, altre volte entrambi.

L’obiettivo delle istituzioni, sia quelle occulte che quelle ufficiali, restava comunque lo stesso. Proteggere il potere costituito dalla minaccia rivoluzionaria socialista paventata dal movimento proletario e stroncare sul nascere l’associazionismo sindacale. Per questo motivo, tra la fine del XIX e la prima metà del XX secolo, Cosa Nostra cominciò a ricoprire con maggior efficacia il ruolo di garante dello status quo.

Come nel tragico caso della Strage di Caltavuturo del 20 gennaio 1893, festa di San Sebastiano Martire, dove a perdere la vita furono 11 persone, uccise a sangue freddo solo perchè pretendevano pane e lavoro.

Non c’è da meravigliarsi nel costatare la latitanza di questa vicenda dai libri di storia. Non c’è da domandarsi il perchè essa non figuri ancor meno in quelli scolastici. C’è da esser consapevoli soltanto che si trattò di una delle primissime stragi del neonato Regno.

Citando gli studi dello storico nisseno Salvatore Francesco Romano, nel “Storia dei Fasci siciliani”, sappiamo che quel giorno a centinaia si ritrovarono in paese “armati” di zappe e vanghe per occupare un fazzoletto di terra che l’amministrazione comunale aveva promesso, ma mai ceduto.

Da diverso tempo nel piccolo borgo delle Madonie serpeggiava l’idea di organizzare un’azione di forza. I caporioni del paese, intuendo che gli eventi stavano rapidamente precipitando, informarono l’esercito e i carabinieri ed inviarono degli infiltrati nelle file dei rivoltosi.

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Durante gli scontri infatti, ci fu una fitta sassaiola, con tutta probabilità innescata dagli stessi campieri infiltrati, con l’obiettivo di istigare i militari a sparare sulla folla. C’è addirittura chi sosteneva che i primi a sparare non furono i militari, ma qualcuno in “borghese”.

Sull’esperienza del fascio contadino di Caltavuturo calò la scure della repressione. L’anno seguente il giovane stato italiano aveva già processato e condannato i capi delle organizzazioni contadine e sciolto tutte le autorità sindacali.

La dura repressione dei movimenti sindacali, all’epoca unica vera alternativa al modello perverso di società imposto dalla mafia rurale, favorì di fatto l’affermazione della “cultura” mafiosa sull’isola.

Solo alcuni anni dopo, una parte delle terre contese fu distribuita ai contadini di Caltavuturo: un ettaro scarso e della peggiore qualità. Poi fu solo oblio. Nessuno parlò più del giorno di San Sebastiano.

Venne addirittura abolita la tradizionale processione dedicata al santo. L’annuale appuntamento religioso, infatti, richiamava l’intero popolo. Cancellarla significò evitare altre “tentazioni” alla rivolta. Meglio metterci una pietra sopra, dunque. E così fu per cento lunghi anni, fino a che non si riaccesero i riflettori sul caso, con la complicità della pellicola di Pasquale Scimeca, “Il giorno di San Sebastiano”, che ne narra i fatti.

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