Provocatoriamente (ma nemmeno più di tanto…), si potrebbe pure affermare che “Falso” e “autentico” non sono due termini sempre contrari. Tra di essi esiste una serie di sfumature fatte dai passaggi graduali di un terzo elemento in gioco, che è “l’attribuizione“. L’attribuizione indica il terreno dove l’indagine si muoverà.

Quando abbiamo a che fare con il problema della falsificazione, il vero distinguo da compiere è invece quello tra copia e falso.

La copia non ha mai finalità fraudolente. Essa, nell’accezione antica, è volta ad imitare la natura che riflette. Alla copia è stato affidato il compito di trasmettere dei “modelli”, di documentare la natura dell’opera originale cocretamente, ma anche di rispondere all’esigenze del mercato. Si pensi solamente quanto è stata determinate, per la codifica delle iconografie classiche, il proliferare di copie greche nel mercato romano di età imperiale.

Copia romana del tipo “Apollo Kassel” di Fidia (il cui originale risalente a ca. il 450 a.C. è conosciuto come “Apollo Parnopios”). In Marmo pentelico

La natura della copia è immutabile nel corso della storia umana. Muta solo la maniera con cui essa viene prodotta. Ad esempio, a partire dal XV secolo, gli allievi delle botteghe dei grandi maestri del rinascimento, erano spesso autorizzati ad imitare la maniera del maestro anche per poter realizzare copie delle sue opere, che egli potesse firmare e riconoscere, come se le avesse eseguite di mano sua. Va detto che, una copia così intesa non può essere puramente meccanica e l’artista deve anzitutto sentire il proprio soggetto come l’avrebbe sentito il maestro che egli studia.

Ma in fortunatissimi casi (forse uno su un miliardo) l’allievo, surclassando il suo maestro, impone la sua individualità così nettamente da distanziarsi da qualsiasi dettame. Per fortuna, di episodi del genere la storia dell’arte ne è piena. Sicuramente, le cronache provenienti dalla bottega del Verrocchio, sono un esempio più che noto. Fu, infatti, proprio alla fine del XV secolo, che cominciò a manifestarsi la coscienza dell’individualità artistica. Leonardo avrebbe affermato che:

«Nessuno deve imitare la maniera di un altro, perché egli non sarebbe che il nipote e non il figlio della natura, quanto all’arte»

Dettaglio del “Battesimo di Cristo” del Verrocchio (1470/75). L’angelo di sinistra è stato dipinto dalla mano di Leonardo.

Le copie di opere famose, tuttavia, per soddisfare la domanda di mercato, continuavano ad essere praticate e, ovviamente, a pagarne le spese furono, ironia della sorte, proprio gli artisti più importanti, Leonardo in primis. Si pensi solo alla caciara immane creatasi intorno al Salvator Mundi…(vedi qui

Leonardo da Vinci (non credo proprio!), Salvator Mundi, circa 1500 (quanto di questo quadro è del 500?)

Col passare dei secoli il copiare diventa soprattutto un mezzo di studio e di esercizio, praticato dai maggiori maestri, come omaggio reso o come promemoria. Come non citare le stupende copie di opere di Tiziano, Raffaello, Caravaggio, realizzate da grandissimi maestri come Degas, Carracci, Velazquez, le quali costituiscono vere e proprie reinterpretazioni!

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Nei secoli XVII e XVIII al posto dei copisti subentrarono i restauratori. Purtroppo, in quel periodo storico, molto spesso il restauro non si caratterizza così positivamente. E’ infatti sempre difficile stabilire la linea di demarcazione tra falsificazione e restauro. In questo particolare momento culturale in tutti i campi dell’arte, basti pensare all’architettura, si “restaura”, dunque, non per riportare l’opera allo stato originale ma per riportarlo allo stato immaginario.

Nel XIX secolo, la copia venne utilizzata per salvaguardare il ricordo di pitture murali medievali in via di deterioramento, o per mettere al riparo dagli agenti atmosferici le statue più iconiche.

Luigi Arrighetti, copia del David di Michelangelo, 1910, Piazzia della Signoria, Firenze

A partire dalla fine dell’Ottocento, il fenomeno non ha più la stessa voga di un tempo. Le scuole di pittura lasciano spazio alle avanguardie.

Maria Konstantinowna Bashkirtseff, 1858-1884 “Pittori nello Studio”, Olio su tela, Dnipropetrovsk State Art Museum Dnipropetrovsk, Ucraina

Un ultima variazione sul tema è rappresentata dalla “replica“, intesa come una ripetizione del maestro, di un modello, di un prototipo, di un’iconografia. I motivi per replicare un dipinto o una scultura possono essere i più vari. L’artista ripete un tema di successo per il desiderio di un committente/collezionista, o per migliorarlo, apportandovi eventualmente delle varianti.

Replica della Statua della Libertà, 1889, Parigi.

È raro peraltro che una replica si presenti perfettamente identica all’originale. Il valore delle repliche è d’altronde assai vario ed è sempre in rapporto con la qualità e anche con le ragioni che hanno motivato la loro esecuzione. Può accadere che la replica autografa nasca da un approfondimento, da un rinnovamento o da una decantazione dell’ispirazione, e assuma allora valore di originale o, malgrado l’identità esteriore, di nuova opera d’arte distinta dalla prima; inversamente può accadere che una replica autografa o molto prossima all’originale decada, per il meccanismo del processo al livello di copia.

Il giudizio di falso, copia e riproduzione di una determinata opera, può arrivare a coinvolgere perfino l’artista. Nel riprodurla a distanza di tempo, firmandola, modificandone o apponendo datazione diversa con l’intenzione di trarre in inganno per mero vantaggio economico, l’artista diviene falsario di se stesso, e assumerà moralmente e giuridicamente tale ruolo. Come non citare il grande De Chirico, il quale, per assecondare le pressanti esigenze del mercato, sempre più affamato di quadri del suo periodo metafisico, retrodatava alcune tele.

Giorgio de Chirico, Piazza d’Italia (Souvenir d’Italie II), 1933 (retrodatato dall’autore stesso al 1913), olio su tela, collezione privata.
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