Era il 1969. Il tessuto urbanistico di Palermo mostrava ancora profonde lacerazioni. Le ferite subite dalla città durante i violenti bombardamenti alleati del 1943, si stavano sommando alle scellerate demolizioni delle ville liberty e degli agrumeti della conca d’oro, tristemente volute per lasciare spazio ad ecomostri di sventurata edilizia popolare. La mafia stava compiendo uno dei suoi primi grandi “salti di qualità”: dai traffici latifondisti alla speculazione immobiliare, concretizzatosi nel cosiddetto “sacco di Palermo”, perpetrato attraverso l’infame Piano Regolatore del 62′, autorizzato e sottoscritto da una classe politica profondamente collusa con la criminalità organizzata. Una città mutilata del suo immenso patrimonio artistico, a cui la designazione nel 2018 a capitale italiana della cultura può solo che portare grande giovamento.
Immune da questa diffusa decadenza era rimasta intatta in tutta la sua monumentalità, la grande tela 2,70 x 2 metri, dipinta nel 1600 dal maestro di Caravaggio Michelangelo Merisi, intitolata e raffigurante la “Natività con i santi Lorenzo e Francesco d’Assisi”. Longhi definiva l’opera come “la meglio conservata tra quelle che il Caravaggio aveva prodotto in Sicilia”, grazie anche ad un sapiente restauro della tela eseguito nel 1951. Un capolavoro indiscusso della maturità del “pittore che per primo diventò moderno nella storia dell’arte”. Probabilmente dipinto invece a Roma, su commissione di un ricco mercante che aveva stretti rapporti con la città di Palermo. L’ opera si trovava all’interno dell’Oratorio di San Lorenzo, adiacente alla basilica di S.Francesco d’Assisi, nell’antico mandamento della Kalsa, celato da un dedalo di vicoletti squisitamente arabi.
L’uso dell’imperfetto a questo punto della narrazione non ha niente di rasserenante… Purtroppo non lascia presagire a un ipotetico trasferimento dell’opera dall’Oratorio di San Lorenzo ad un altro polo museale, ma ad un fatto delittuoso, un furto! Un furto così drammatico da fornire non pochi spunti letterari a grandissimi scrittori siciliani come Sciascia e Camilleri.
Nella notte tra il 17 e il 18 ottobre di quell’anno, ignoti si introdussero nell’ oratorio. La celebre Natività, incastonata negli stucchi e putti della chiesa palermitana, venne barbaricamente sradicata dal suo supporto e sparì per sempre senza lasciare traccia. Il misfatto fu scoperto solo il pomeriggio seguente, ma ormai era già troppo tardi.
Da quella infausta notte ci si interroga su dove sia sparita la tela. Se esista ancora, se sarà mai possibile un giorno riposizionarla sull’altare dell’oratorio palermitano. Le speranze di trovare gli autori del furto si affievolivano man mano che passavano i giorni, i mesi, gli anni. Esattamente un po’ come accade per i delitti di “sangue”, diventano fondamentali le primissime 48 ore, quando il corpo del reato è sempre “caldo”, ma, purtroppo in questa circostanza la risposta degli inquirenti fu scarna e poco incisiva.
Col senno di poi, ed indagini efficaci difficilmente si fanno “col senno di poi”, è maturata l’idea che i responsabili di questo furto fossero ascrivibili all’ ambito mafioso, a quei tempi non ancora codificato ne giudiziariamente, ne socialmente (c’era chi credeva che la mafia non esistesse), quindi più difficile da esplorare e soprattutto da contrastare rispetto agli strumenti legislativi messi a punto solo dopo che lo Stato ha ufficializzato l’esistenza di cosa nostra. Dovettero passare due guerre di mafia, un maxi processo e chissà quali trattative segrete tra Stato ed organizzazioni criminali, prima che gli inquirenti potessero avvalersi di validi strumenti investigativi e repressivi.
In ogni caso resta comunque sempre alquanto complicato arrivare ad identificare uno o più colpevoli di una vicenda di quasi mezzo secolo fa, tanto complicato che l’F.B.I ha inserito la tela latitante nella Top Ten Art Crimes, la lista dei più gravi furti d’arte, improvvisando anche una stima del valore in soli 20 “miseri” milioni di dollari ed ignorando la sostanziale inalienabilità del capolavoro universale di proprietà della Chiesa Cattolica, l’ultimo proprietario conosciuto.
Negli anni si moltiplicarono inoltre una serie sconfinata di congetture sul destino dell’opera.
Nel 1980 dallo storico e giornalista britannico Peter Watson dichiarò che a Laviano, in provincia di Salerno, ebbe un contatto con un non meglio precisato mercante d’arte che gli propose l’acquisto della Natività. L’incontro con i ricettatori venne fissato per la sera il 23 novembre, ma non avvenne mai a causa del grande terremoto che devastò l’Irpinia. Un tentativo maldestro di confezionamento di uno scoop giornalistico, interrotto improvvisamente dalla forza distruttrice di madre natura? Io credo di si!
Nel 1996 si tornò a parlare della Natività attraverso i racconti del collaboratore di giustizia, Giovanni Brusca detto “U scannacristiani”. Il Capo della cosca di San Giuseppe Jato, fiancheggiatore dei corleonesi, responsabile di centinaia di morti ed efferatezze tanto indicibili quanto note alla storia dello stato. Egli riferì che Cosa nostra, attraverso la cosiddetta trattativa tra Stato e mafia, provò ad instaurare un rapporto di scambio con le istituzioni avente oggetto la restituzione di opere d’arte trafugate, non facendo comunque mai alcun accenno alla possibile restituzione della Natività trafugata nel ‘69.
Mi riservo di dubitare sulla competenza artistica di Giovanni Brusca, tenendo conto del fatto che magari un boss mafioso abbia realmente poco tempo da investire nel affinare tecniche di riconoscimento, rispetto al tempo impiegato a pensare a come star lontano dalle patrie galere. Credo sia legittimo supporre che il pentito si riferisse ad altri dipinti.
Nel dicembre del 2009 Gaspare Spatuzza, esponente di rilievo della cosca di Brancaccio, responsabile del furto della Fiat 126 impiegata nella rappresaglia mafiosa di Via D’Amelio che costò la vita a sei persone tra cui il Giudice Borsellino, asserì che negli anni 80 l’opera fu nascosta in una stalla fuori città, finendo per esser irrimediabilmente danneggiata dai topi e dai maiali e successivamente ridotta in cenere. Si può pacificamente ipotizzare che Spatuzza, bambino all’epoca del furto, abbia appreso di questa vicenda da una terza persona, e che questo suo collaboratore abbia semplicemente dedotto che il quadro di cui avevano parlato potesse essere proprio la Natività del Caravaggio, senza averne alcuna certezza. Di fatto, si trattavano di mere voci.
Altri pentiti, più o meno “celebri”, quali Vincenzo la Piana, dichiararono che l’opera venne riposta all’interno di una cassa di ferro, nel terreno della propria villa. Tuttavia, le consequenziali ricerche, poi svolte dalla polizia giudiziaria, non consentirono alcun rinvenimento.
Salvatore Cancemi, invece, dichiarò che la Natività sarebbe stata esposta durante alcune riunioni della “Cupola” quale simbolo di potere e prestigio. Ipotesi questa non suffragata da Marino Mannoia (“u Dutturi”), semplice “soldato” all’epoca dei fatti, divenuto negli anni il principale raffinatore di eroina di Palermo, a cui è stato comprovato un ruolo rilevante nel furto. Mannoia è sicuramente un testimone da considerare attendibile nel groviglio investigativo creatosi intorno a questa vicenda. Durante un suo interrogatorio, ha fugato ogni dubbio sulla folcloristica teoria che vede grande tela in ostensione durante le riunioni della commissione interprovinciale:
«Tutte queste leggende metropolitane che il quadro veniva esposto dalla commissione di Cosa nostra nei meeting… Tutte queste buffonate. Non esistono queste cose! Cosa nostra è una delle organizzazioni più serie che esistano sul pianeta!»
Ha poi riferito dell’organizzazione del furto commesso dalla batteria di ladri a cui lui stesso apparteneva anche se, pur partecipando all’organizzazione del delitto e alle sue fasi successive, non si occupò della materiale sottrazione della Natività:
«Io nel ’69, prima di entrare ufficialmente in Cosa nostra, facevo, insieme a Pino Greco “Scarpuzzedda” e ad altri, delle rapine a rappresentanti di gioielli… Insomma ero un ragazzaccio. In quel periodo stavo insieme, diciamo, a mio cugino […] pure per commettere situazioni delittuose – ma in quel momento anche non di particolare importanza – che si riferivano a Cosa nostra; ma come malavita organizzata, nel senso delinquenziale, per trarne profitto, di lucro.
Il furto è avvenuto come ben sapete nell’Oratorio di San Lorenzo alla Magione, alle spalle della Kalsa. Questo quadro è stato rubato, però io quella sera non partecipai al furto perché ero con una ragazza, ma in precedenza ne avevamo parlato. Avevo visto il quadro all’Oratorio. Ero andato dentro a curiosare un giorno con […], così, tanto per vedere com’era la situazione logistica.
Quindi, quando il quadro è stato rubato fu caricato su un Fiat 642, un camion… Un autocarro dell’epoca, di proprietà di […].
Quando è stato trafugato il quadro è stato caricato su un 642 e portato alla fabbrica di ghiaccio in disuso… dove c’è il Ponte Ammiraglio».
Ventiquattro ore dopo il furto, Marino Mannoia ed altri suoi complici parteciparono all’incontro dove la tela venne mostrata ad un primo possibile acquirente:
«Eravamo presenti tutti quelli che ho nominato: Marchese e […]. Il quadro era avvolto in un telone nella fabbrica di ghiaccio in disuso dove c’erano motori vecchi buttati qua e là e altre cose simili. Il quadro era messo in una cella frigorifera, non più agibile naturalmente. Il quadro era di notevoli dimensioni, di circa tre metri per due… Insomma, un quadro di misura notevole. Mi ricordo che poi questo quadro era arrotolato.
Allora, si prepara questo quadro che era arrotolato per fare un po’ di spazio, per poterlo mettere in un una maniera distesa per aspettare questa persona che veniva a vedere il quadro… Io non è che mi intendevo di opere d’arte… Ma ho visto che il quadro in qualche modo era danneggiato… Era come squamato, diciamo che c’erano un po’ di calcinacci attorno».
Il compratore, tuttavia, vedendo che l’opera aveva subito alcuni danni, si rifiutò di acquistarla, prendendosi l’inverosimile lusso di inveire contro i mafiosi:
«Questa persona ci chiama, in modo offensivo, “criminali !” e poi se ne va».
In un’altra rivelazione del Mannoia si parla di distruzione volontaria dell’opera, poiché non più alienabile. Durante il distacco dalle pareti dell’Oratorio al dipinto vennero inferti dei tagli profondissimi e la rudimentale fase di arrotolamento provocò la perdita di diverse sezioni di superficie pittorica, tale da rendere non più fruibile l’opera.
Non credo affatto alla storia della sfaldatura della tela. Il già citato restauro del ‘51 certificò nitidamente le condizioni della Natività tramite la redazione di un’apposita Scheda di restauro, pubblicata poi sul Bollettino dell’Istituto superiore per la conservazione ed il restauro:
“Anche la Natività, seppur non in maniera così accentuata, doveva presentarsi in condizioni assai compromesse: la forte sgranatura delle campiture chiare nelle immagini radiografiche e nelle foto scattate prima del restauro, la presenza di ampie zone pesantemente spulite su aree di particolare rilievo (ad esempio i volti), fenditure, nonché ampie ed estese ridipinture confermano il drammatico deperimento dell’opera.”
Questo importante documento, non fornisce informazioni ben precise sulle modalità e sulle tecniche impiegate nel processo di restauro della Natività, ma solo il suo stato conservativo. Ciò nonostante, non ipotizza mai la necessità di un intervento di consolidamento del film pittorico. Forse, l’opera del Merisi, non subì questo tipo di intervento perché non vennero ravvisate criticità così marcate. Non si può, inoltre, non riconoscere al genio di Caravaggio una grande maestria tecnica anche nelle fasi preparatorie della realizzazione dei suoi capolavori, tale da assicurare che trasmissione del suo bagaglio stilistico giungesse a noi senza considerevoli interruzioni. Di certo non era così sperimentatore come lo sfortunato Leonardo…
Questi elementi non mi fanno dubitare un minuto della mendacità delle dichiarazioni del Mannoia. L’opera non può essersi sgretolata.
Inoltre, il Nucleo tutela del patrimonio artistico dei Carabinieri accertò che il furto di cui parlava il collaboratore di giustizia, riguardava un altro quadro dall’iconografia simile, attribuito a Vincenzo da Pavia, collocato nella chiesa dei Santi Quaranta Martiri alla Guilla al Capo, che lo stesso Mannoia rubò proprio in quelle settimane.
L’ipotesi più pertinente a dinamiche tipicamente malavitose, si potrebbe dedurre invece, dal fatto che le voci della distruzione della tela possano essere state divulgate artificiosamente, così da facilitare la spartizione dei ricavi soltanto all’interno di una ristrettissima cerchia di affiliati a Cosa nostra. E’ possibile che gli appartenenti alle cosche dei mandamenti di S.Maria del Gesù/Villagrazia, Brancaccio e Porta Nuova, quelle consorterie composte dagli “uomini d’onore” vincitori del primo conflitto di mafia, divenuti titolari de facto del controllo “amministrativo” della porzione di città teatro del furto e del primo occultamento della tela, possano essere i primi effettivi colpevoli in questa vicenda.
Il documento XXIII, n. 44, redatto dalla Commissione Parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie, trasmesso alle presidenze di camera e senato il 22 febbraio 2018 , restituisce, attraverso l’interrogatorio del pentito affiliato alla cosca di S.Maria del Gesù, Gaetano Grado, un resoconto preciso e dettagliato dei fatti vissuti dal pentito in prima persona. Tale preziosa testimonianza, trova naturale riscontro con l’ipotesi che il furto sia maturato all’interno della microcriminalità. Tuttavia, complice il clamore che questo delitto suscitò, non passò molto tempo prima che la giurisdizione dell’opera passasse direttamente in mano ai vertici di Cosa nostra. Ciò avvenne grazie alla complicità proprio di Gaetano Grado, che, pur essendo latitante all’epoca dei fatti, riusciva comunque a sovrintendere liberamente il territorio di Palermo-centro, caduto sotto il controllo di Badalamenti, Bontade e Leggio dopo la prima guerra di mafia. Addirittura, è stato accertato che Gaetano Grado utilizzava il caratteristico mercato della la Vucciria come una sorta di Ufficio affari riservati.
«Ricordo bene i fatti […]. Nel ’69, quando è successo che a San Lorenzo hanno rubato questo quadro della Natività di Caravaggio […], io avevo una mansione nel palermitano. Siccome avevamo deciso che nel centro di Palermo – dopo tutto quello che avevamo fatto e dopo che avevamo sterminato tutti – non ci dovevano essere più famiglie mafiose, io allora avevo il compito di tenere ordine nella città di Palermo, e da latitante io giravo tranquillamente come tutti i latitanti, non c’era problema. Io avevo il compito di scendere tutte le mattine nel mercato della Vucciria, per avere notizie di sopravvissuti della città, delle famiglie mafiose di Palermo. Tutte le mattine loro avevano il compito di venire da me a rapportarmi tutto quello che succedeva: dalla piccola cosa, dal ladro, al rapinatore o altri fatti di sangue, per riferirmi tutto».
Fu proprio il boss Gaetano Badalamenti a chiedere a Grado di interessarsi del fatto. Tutto ciò trova conferma in un altro interrogatorio:
«Una mattina stavo leggendo il giornale […], dopo due giorni che era scomparso il Caravaggio. Ero in una mia proprietà di Santa Maria di Gesù. Passa Gaetano Badalamenti da questa mia proprietà, sapendo che ero lì, e – poverino, non aveva tanta scuola anche se era una persona molto furba e intelligente – mi fa: “Tanino (Grado), tu che scendi a Palermo vedi di interessarti… – lui lo chiamava “’U Caravaggiu” – dice che hanno rubato ’sto quadro che ho sentito che ha un valore inestimabile. Vedi tu che sei addetto a tenere ordine nel centro di Palermo, conosci tutti i ladri, conosci i rapinatori, le disgrazie e le carcerazioni…”.»
Gaetano Grado, rivolgendosi ad un “consigliere” (il documento della Commissione Parlamentare ne omette il nome) del rappresentante della famiglia mafiosa di Brancaccio che, ai tempi, era Giuseppe Di Maggio affermò:
«Scendo giù a Palermo e incontro alla Vucciria un certo […], consigliere della famiglia mafiosa di Giuseppe Di Maggio di Brancaccio, che mi aspettava. Lo vedo, ci salutiamo, andiamo a prendere il caffè e dico: “Senti, è successo questo fatto del quadro. È passato Tanino Badalamenti dalla mia proprietà, mi interessa sapere chi sia stato, chi sono questi ladri che hanno rubato questo quadro a San Lorenzo”».
Tale “consigliere” contattò subito un ragazzo (del quale pure viene omesso il nome), per chiedergli di interessarsi su chi avesse commesso il furto.
Il giovane, però, alla presenza di Grado, confermò di essere stato lui stesso uno degli autori del furto e acconsentì immediatamente a recapitare il dipinto al “consigliere”, chiedendo in cambio una piccola regalia, cosa che poi avvenne:
«Lui chiama un ragazzo […], che a volte loro se lo portavano a scaricare le sigarette di contrabbando, di nome […]. Chiama ’sto ragazzo e gli dice: “Senti, hanno fatto un furto… così così… a San Lorenzo, in una chiesa. Si son portati un quadro. Vedi di sapere, tu che conosci tutti i ladri della zona, vedi se si può sapere qualcosa” […].
Questo ragazzo mi conosceva, mi guarda e mi fa: “Signor Tanino, guardi che l’ho fatto io questo furto”.
Ah, l’hai fatto tu ? – gli dico – allora fai una cosa… Dov’è questo quadro ?
E dice: “È conservato in un quartiere malfamato di Palermo, in una casa diroccata”.
Fai una cosa, piglia il quadro e glielo dai a […], perché lui sa quello che deve fare.
“Ma Tano siamo usciti stanotte per rubare… stiamo morendo di fame”.
Non ti preoccupare – gli dico io – qualche cosa te la faremo avere.
So che poi […], ai tempi, non ricordo esattamente quanto gli hanno dato, ma hanno pigliato 4 o 5 milioni per questo quadro».
Grado, nelle sue deposizioni, escluse che il furto fosse stato commissionato dai vertici di cosa nostra, confermando che si trattò di una operazione autonoma di una semplice batteria di piccoli ladri.
«Non è stato un furto su commissione… Fu d’iniziativa, sapevano che c’erano in questa chiesa dei quadri importanti, di valore, loro forse pensavano che poi li vendevano. Pensavano che magari rubando questi quadri li vendevano ai ricettatori, non si rendevano conto, secondo me».
I movimenti della tela, da questo momento, cominciano a coincidere con i movimenti degli “uomini d’onore” coinvolti, in base alle loro gerarchie e alle loro competenze territoriali. La Natività, inizialmente, fu portata dal “consigliere” al “rappresentante” Giuseppe Di Maggio, il quale l’affidò temporaneamente a Francesco Mafara, suo nipote, il quale, a sua volta, nascose la Natività in una grotta di San Ciro Maredolce presso una cava, in attesa di farla recapitare al richiedente:
«Mi fa: “Quando mi dà il quadro che devo fare ?”
Ho detto: “Portalo dal tuo rappresentante, che poi si presenterà qualcuno da lui.
“Va bene”.
Lui lo piglia, lo porta a Giuseppe Di Maggio, che era il suo rappresentante.
Giuseppe Di Maggio – mi ricordo che c’ero io che aspettavo – riceve questo quadro. C’era un suo nipote, un certo Franco Mafara, che è scomparso nella guerra di mafia.
Questo se lo piglia, dice: “Zio, me lo porto”.
E se lo porta in una cava, in una grotta di San Ciro Maredolce; loro avevano una cava lì e ci porta il quadro».
Secondo gli accordi, il dipinto venne poi consegnato a Stefano Bontade il quale, a sua volta, lo mise a disposizione di Gaetano Badalamenti che, infine, prese in consegna la Natività portandosela nelle sue proprietà di Cinisi:
«Questo quadro poi la buonanima di Stefano Bontade (o Bontà) se lo fa portare in una sua proprietà, Magliocco. Dopo interviene Gaetano Badalamenti. Gaetano Badalamenti ai tempi era rappresentante di tutte le famiglie mafiose siciliane e Stefano Bontà era il sottocapo.
Viene così Gaetano Badalamenti con dei ragazzi suoi, subito, a breve distanza dal furto, questione di giorni […].
Badalamenti lo pretendeva perché lui era il rappresentante della Sicilia.
Stefano gli dice: “Pòrtatelo”. Ma dice anche: “Guarda che è invendibile perché ha un valore inestimabile, non è facile venderlo”.
Gaetano Badalamenti viene l’indomani con due ragazzi suoi, di cui non so precisare i nomi, e se lo porta. Se lo porta a Cinisi».
La commissione ha accertato che il capomafia entrò in contatto con un trafficante di opere d’arte di origini svizzere al quale intendeva rivendere la tela.
Non si sa se l’iniziativa fu assunta dal boss che fiutò l’affare o dallo stesso svizzero venuto a conoscenza, tramite la stampa, del furto dell’importante dipinto. Grado, comunque, apprese poi da Badalamenti che il trafficante si era effettivamente recato dal boss di Cinisi per esaminare la Natività decidendo di acquistarla. Tuttavia, da subito, lo svizzero consigliò di tagliare in più parti l’opera, per venderla più agevolmente.
In effetti, tempo dopo, il Badalamenti confermò a Grado che la tela era stata divisa in più parti:
«Dopo tempo, io sento che loro, tramite Gaetano Badalamenti e le sue amicizie – Badalamenti aveva grandi amicizie – chiamano un ricettatore, una persona svizzera, un uomo molto anziano che io ho visto e che ricettava quadri […].
L’hanno fatto venire appositamente. Difatti Gaetano Badalamenti, poi, mi raccontò dei particolari.
Questi, quando ha visto il quadro, si è seduto, e ha detto: “Per favore, fatemelo guardare”.
Si è seduto. Non faceva altro che guardare il quadro, e piangere.
E Gaetano Badalamenti lo sfotteva. […] Piangeva, piangeva… Gaetano Badalamenti l’ha preso per stupido».
Secondo Grado il quadro era integro, anche se “era un po’ sfilacciato nei lati perché gli avevano tolto la cornice, era senza cornice. Era sfilacciato, se non sbaglio dicevano che lo avevano tagliato con una lametta, con qualcosa del genere”.
Su questo lo svizzero non fece alcun commento e concluse l’affare.
«In pratica questo vecchio – di cui non so precisare il nome ma che era molto anziano, sui settant’anni e più – gli dice: “Lo compro io, però sappiate che non si può vendere perché è di un valore inestimabile”.
Gaetano Badalamenti dice: “E che te ne fai ?”
“Lo divido”.
“Ma come lo dividi ?”
“Lo taglio. Dipende da quanti acquirenti trovo”.
Poi ho saputo, sempre tramite Gaetano Badalamenti, che questo quadro è stato tagliato in quattro parti e venduto».
Il Caravaggio partì quindi integro da Cinisi, mentre la divisione in quattro parti (altre ipotesi dicono sei/otto, anche in relazione al numero delle figure) sarebbe avvenuta in Svizzera:
«Non so come gli hanno fatto avere questo quadro in Svizzera. Era molto voluminoso. So che è stato trasportato con un camion, non so precisare quale, ma era un camion grande con la copertura, di quelli per la frutta.
Glielo hanno spedito intero. Gaetano Badalamenti – eravamo molto amici – mi dice poi che in Svizzera questo quadro è stato diviso, è stato venduto…
Loro lì hanno dei collezionisti […], persone che hanno dei musei privati e che se lo sono divisi in quattro, in pratica, per la megalomania di dire – e Gaetano Badalamenti non si capacitava – io ho un pezzo del Caravaggio».
L’operazione si svolse nel giro di pochi mesi. Grado ha poi riferito che, dopo un certo periodo, verosimilmente sempre nel 1970, lo svizzero ritornò a Palermo per pagare il relativo prezzo, occasione questa in cui il collaboratore ebbe modo di conoscere il trafficante:
«Non è che mi interessavo io del Caravaggio né di questo signore.
Arrivai da Badalamenti il giorno che sapevo che doveva scendere questo vecchio signore. L’ho visto in casa di Badalamenti, ma nemmeno ci ho parlato, l’ho visto così, l’ho guardato e sono andato via. […] Badalamenti mi disse che questo svizzero era uno dei più grandi commercianti di opere d’arte rubate».
Più tardi, don Tano ricompensò Grado con 50 mila franchi svizzeri, indizio evidente della lucrosa e definitiva conclusione dell’affare:
«Un giorno – io ero sempre in questa mia proprietà – passa Gaetano Badalamenti. Ricordo in particolare che aveva una busta, perché questo vecchio era sceso a portare non so quanti milioni di franchi svizzeri.
Badalamenti mi dà questa busta, e mi fa: “Tanino tieni qua. Ora che ci sono tempi di ristrettezze, ho avuto un pensiero per te”.
Piglia 50 mila franchi, 50 mila franchi svizzeri, e dice: “Tieni, mettiteli in tasca”.
Non ho chiesto, però io ho capito che naturalmente venivano dal quadro.
Era una cifra importante, perché loro sapevano che io, innanzitutto, non avevo bisogno della loro elemosina, perché non accettavo mai soldi. Ma loro mi dicono: “No, questi te li devi pigliare per la soddisfazione che abbiamo venduto questo quadro” […]. 50 mila franchi svizzeri ai tempi era una cifra (circa 75.000 Euro odierni). Ricordo bene, erano banconote di grosso taglio messe a fascette».
Secondo Grado, lo svizzero che acquistò il dipinto era probabilmente di Lugano, desunto anche da un altro racconto del capomafia:
«Gaetano Badalamenti è andato poi a Lugano. Mi ha detto in seguito: “Sono stato da quel vecchio, mi ha detto che vuole altri quadri che ci sono giù in Sicilia ma gli ho detto di no”.
Gaetano Badalamenti, ripeto, era senza scuola, però era molto intelligente. Dice: “Si è creato troppo scalpore, troppa confusione s’è fatta”, perché c’era stato un grande interessamento di tutti, dalla magistratura alla polizia.
Non so dire se Gaetano Badalamenti lo frequentava spesso questo vecchio. È sicuramente andato lì a Lugano, perché mi ha detto che aveva una barca di soldi. Per dire Gaetano Badalamenti “una barca di soldi”, chissà quanti soldi aveva e quanti milioni aveva pigliato lui».
Il collaboratore fornì anche i nominativi dei giovani che costituivano la batteria dedita ai furti, indicando una serie di nomi, omessi nel rapporto della commissione, tra cui anche quello, noto, di Francesco Marino Mannoia:
«Poi se non sbaglio c’era pure Marino Mannoia, imparentato con Vernengo. Non ho la certezza, ma la batteria dei ladri era quella».
Al fine di identificare lo svizzero, la Commissione svolse una successiva analisi volta ad individuare, secondo le informazioni disponibili, quali fossero i soggetti che, in Svizzera, si occupavano, all’epoca, di opere d’arte di rilievo.
In base alle indicazioni dell’Organo parlamentare, i Carabinieri formarono un album fotografico che, successivamente, venne sottoposto in visione a Grado.
Il collaboratore, in effetti, riconobbe nelle foto un trafficante d’arte del tutto rispondente per età, provenienza e affari, alla persona descritta nel precedente verbale, di cui la commissione omette le generalità, per tutelare lo svolgimento delle indagini.
Secondo Grado, il trafficante che fece da mediatore era probabilmente un conoscitore, una persona di alta levatura culturale in grado di cogliere il valore artistico, prima ancora che economico, del dipinto, capace di commuoversi davanti alla straordinaria opera d’arte:
«Era un esperto d’arte. Perché poi Gaetano Badalamenti mi ha fatto ridere, dice: “’Stu scimunito… Guardava il Caravaggio… Mi ha chiesto il permesso se poteva restare un po’ di più a guardarlo. Gli abbiamo dato una sedia. Gli sono spuntate le lacrime. Era appassionato proprio…».
Non resta che attendere gli ultimi sviluppi dagli inquirenti, confidando magari sull’ “usanza” tutta italiana che prevede, appena termina o viene ad insediarsi un governo, svolte più o meno inattese nelle indagini di mafia.
Di questa vicenda resta certa solo una cosa: non si è realizzata l’entità e la portata del danno che il furto di questo capolavoro ha recato alle radici di un popolo, alla sua memoria collettiva. Uno stato di torpore, perdurante nel tempo, che non ha permesso di tenere la guardia alta, anche quando, qualche anno più tardi, sempre a Palermo e sempre nell’Oratorio di San Lorenzo, evaporarono nel nulla alcune statuette di Giacomo Serpotta, grande scultore e stuccatore del XVII° secolo, il cui valore è inestimabile. Del resto dalle semi-abbandonate chiese e musei siciliani è sparito di tutto. Talvolta non sappiamo neppure quando.
Credo che in Italia, oltre a non tutelare e valorizzare efficacemente il molto che già abbiamo, non si rifletta al moltissimo che invece non abbiamo più.
Un argine concreto alla diaspora del patrimonio artistico italiano, lo erige fortunatamente la gigantesca banca dati dei carabinieri, che contiene la descrizione di 1 milione 97.784 oggetti asportati con 549.251 immagini. Il che rende bene l’idea delle dimensioni di una guerra combattuta sicuramente con fervore ed impegno, ma con mezzi scarsi e norme spesso inadeguate. Nel 2004 uno degli effetti del Codice dei beni culturali era stato quello di rendere impossibile l’arresto dei tombaroli colti in flagrante. Manca, ad oggi, una legge che introduca sanzioni vere, dando più mezzi e poteri a chi ha il compito di difendere, insieme al nostro patrimonio, anche la nostra memoria. Sempre che poi tutto non si infranga al momento del processo: memorabile l’assoluzione decretata nel 2004 dal tribunale di Latina chiamato a processare un signore cui erano stati sequestrati 28 reperti archeologici, con la singolare specificazione che «di anfore, piatti di terracotta, crateri e vasi, manufatti di vario genere, sono pieni i nostri mari e la nostra penisola». Abbiamo così tanta roba… Un’anfora in più o in meno, che volete che sia?
Dott. Matteo Cannella
6/7/2018